Christoph Buchel, artista svizzero-islandese noto per le sue provocatorie istallazioni, trasporta alla Biennale di Venezia un barcone. Il barcone carico di migranti affondato nel 2015 tra le acque del Canale di Sicilia, per la “normalizzazione del dolore”.

Testimonia, infatti, un naufragio imponente forse il più imponente registrato nel Mar Mediterraneo in questi anni di migrazioni. A Venezia il naufragio è stato trasformato in mostra.

Ci ho pensato a lungo e mi sono detta che in fondo non c’è immagine migliore che mostri ciò che l’Europa lasci che accada ai nostri fratelli migranti.

Ma è davvero utile questa istallazione?

È una presenza disturbante sulle banchine dell’Arsenale. Riapre una ferita mai chiusa. Si presenta priva di didascalia, senza rielaborazione alcuna. Sta lì e urla nel silenzio.

Urla, certo, ma pare non essere ascoltata da quelli che davanti alla stessa non si avvicinano come fosse sacrario e anzi, se vogliamo, produce l’effetto opposto: normalizza il dolore, lo metabolizza, lo mastica e lo risputa e fa sì che la fruizione sia accompagnata anche da bevande colorate e occhiali specchiati a prova di pixel.

Forse non dovrebbe stare lì.

Di certo l’artista avrà avuto buone intenzioni e si pone di fatto dalla parte dei migranti, ci mostra il suo impegno.
L’arte, lo si sa, ha la capacità di smuovere coscienze. Questo sepolcro però sembra spettacolarizzare una tragedia, svilendo tutto ciò che ad essa è collegato, comprese le vittime.

Mi chiedo se davvero questa provocazione possa essere chiamata arte e mi chiedo ancora se valga più la vita e la morte di quelle persone.

MI chiedo se valga la pena la “normalizzazione del dolore”, appunto…

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